Lo sguardo e l’aria che manca


La più grande paura del mondo greco – il primo, grande mondo pagano da cui siamo nati – non era la morte in quanto tale, l’atto del morire in sé, ma la mancanza di vita. L’oltremondo era un oltretomba, ovvero una tomba dove buio e oblio regnavano come al principio del mondo, come un mondo sommerso cui tutti eravamo destinati. La memoria svaniva insieme alla vivezza dei viventi.

La grande paura del mondo greco non era la peste in quanto tale, o la guerra, o la vecchiaia, l’infermità, la cecità, la balbuzie che rendeva estranei al mondo degli uomini. E quindi nemmeno, in ultima analisi, la solitudine, l’asocialità, la lontananza e la distanza. Per tutte queste sciagure c’era una speranza, una lotta da compiere, un destino in azione che poteva combattere il destino stesso.

Non il fulmine annichilente di Zeus, non l’urlo orribile delle Erinni, non il morso del serpe. La grande paura dei nostri padri era la Medusa (Vernant, L’universo, gli dei, gli uomini). Uno sguardo improvviso e senza riparo che trasmutava la vita in pietra, in assenza di respiro e movimento, in morte permanente sul piano della vita, dentro il mondo stesso dei vivi. I volti sfigurati e deformi, i corpi immobili e osceni di chi, dentro e sopra il mondo, diveniva assenza di vita, calore, occhio e respiro. Era la tenebra che ghermiva la luce, dentro la fioca luce del mondo.

L’arte greca trovò il modo di respingere l’assalto radicale della morte nella vita inventando quella perfezione insuperabile che sono le sue statue. Appropriandosi dell’arte e della materia nefasta della divinità – la pietra – gli scultori di Atene, Delfi, Olimpia e di tutte le poleis innalzarono statue dentro il mondo dei vivi che, come una falange di scudi-specchio, dessero vita alla morte. Perché cos’è l’Apollo di Olimpia se non la ricerca di una scintilla di vita che duri? O i cavalli del Partenone? O l’oro e l’avorio della statua di Atena? Sono lampi di bianco e di luce che sfidano la morte, che cercano di infondere la vita là dove vita non è.

E l’inganno riesce, da secoli e millenni: contemplare quell’arte significa sostare davanti alla sfida dell’uomo davanti alla rigidità della morte, dire al mondo che l’uomo ha la pretesa angosciosa di redimere persino la morte. Così che essa diventi bella, degna di ricordo e di stupore, come desiderio di eterno tra i mortali che vi passeggiano intorno.

Commuove profondamente quella sfida così radicale alle leggi degli dei e del mondo, ma non è che un altro inganno della sorte. Per quanto meravigliose, per quanto belle da togliere il fiato, le statue greche restano pietre. E la vittoria di Medusa è completa: come schiere incoscienti di piccoli, grandi Prometei, gli uomini di allora si appropriarono del fuoco degli dei, ma le statue rimasero silenti, le braccia non vinsero la gravità, si spezzarono nasi e gambe, caddero come tutto cade. E il regno dei morti venne ad abitare tra le mura dei mortali, sino alla morte di quel grande mondo che aveva osato tanto.

Non ho ancora visto un morto di Covid-19. Non ambisco a tanto. Mi bastano le parole di chi ha accompagnato il padre all’ultimo respiro, alla ricerca spasmodica di aria l’istante prima di dire addio alla vita, ai compagni, alla luce. Come un serpe invisibile, il morbo passa imprevisto per le nostre mani, occhi, bocca e ci blocca, ci trasforma in vegetali affamati di aria, sino a quando la carne diventa pietra immobile, incapace di sé. In silenzio, senza il conforto dei cari, lontani dai nostri focolari, diveniamo memoria breve e penosa. Anche i nostri riti sembrano paralizzati, mentre file notturne di carri di un esercito inerme ci trasportano altrove.

E intanto un intero mondo è come paralizzato in un nuovo morbo di Medusa. Cosa siamo, rintanati nelle nostre case, se non un enorme spasmo contratto, un nervo gigantesco e diffuso che non è più capace di vero movimento, di vera vita? Noi stiamo lottando contro gli dei.

E quanti nostoi, quanti ritorni sospesi attendono sparsi per le isole del mondo? Fortunati quanti sono già nella loro Itaca, con Penelope accanto al fuoco, il cane che guata e riconosce, il figlio che scruta il padre in cerca della sua forza.

Noi, però, non siamo figli solo della disperazione greca. Per quanto in ritirata scomposta e a tratti afasico, un altro padre è ancora in circolo nelle nostre vite. Le sue immagini, le sue statue ancora resistono tra la polvere del mondo. Ancora non tutto è crollato, anche se l’ultimo rintocco della guglia di Notre-Dame de Paris, ingoiata dalle fiamme sorte dalla terra giusto un anno fa, suona oggi come il rogo di un’anima, e non solo di pietre e colonne, legni e volte secolari. No, noi siamo figli di un Figlio che non è divenuto pietra.

Dice la scienza, per quel poco che può sapere e dire, che Cristo sia morto sulla croce per un misto di cause (per tutti, Baima Bollone, La sindone): sfinimento per i colpi della frusta, per lo strazio della croce, per il collasso dei polmoni e del cuore. E Cristo era un crocifisso, cioè un uomo attaccato a una macchina e in spasmodica cerca d’aria. La perversione della morte di croce era questo: un uomo reso macchina, reso puro movimento a scartamento ridotto, lungo i binari del legno e dei chiodi, piantati con arte e con scienza, perché le gambe spingessero in alto ad aprire i polmoni, per il tempo di un respiro. E poi giù, per un altro sozzo sorso di dolore.

Così tutto si compì: nella ricerca di un’aria che non poteva avere esito altro, l’esizio solo. In questo senso i nostri malati d’aria che guariscono sono miracolati della scienza umana, per un altro brandello di vita sino al prossimo incontro. Perché il nostro è sempre e solo un curare, un differire, mai salvare la ferita invincibile della mortalità.

Guardare oggi al Crocefisso non è un’opera pia, una tradizione che vivremo quest’anno, nella migliore delle ipotesi, attraverso un’altra macchina. Guardare oggi all’uomo che cercava l’aria significa guardare oltre la malattia e la sua sorella maggiore. Significa sapere, per esperienza provata sulla pelle di chi ce l’ha fatta, e di chi non ce la farà – abbandonati da tutti, traditi persino da chi non voleva, e circondati da sconosciuti dentro il Calvario dei nostri ospedali –, che la sofferenza più nera ha un senso non nella vita, che continua all’intorno, ma in una vita vera che altrove e Altro è.