Trasmettere il sapere: nella vulgata corrente è questa
la missione primaria del docente.
È possibile che molti di noi usino questa espressione in un senso buono,
caricandola dei significati vivificanti di cui parleremo tra breve.
Sono ormai convinto, tuttavia, che si tratti di una definizione –
o almeno di una descrizione – fallace, anzi gravemente distorcente.
Vedi, il verbo “mettere” deriva dal latino mittere, che significa «mandare»
e «porre, mettere, collocare».
Esistono poi altri significati, ma non sono rilevanti ai fini del nostro discorso.
A sua volta, il prefisso trans- deriva dal latino e significa «al di là, oltre»,
oppure «attraverso» e indica «il passare oltre o attraverso qualcosa»,
quindi da un punto a un altro e, in maniera figurata, «da una condizione a un’altra».
“Trasmettere” significa dunque «tramandare, far passare ad altri» qualcosa,
come un diritto, una proprietà, una malattia, un movimento, etc.
Emerge qui la prima aporia fondamentale: nel rapporto con il discente,
il docente non aliena alcunché di suo. Il rapporto docente-discente è per natura
amplificante, potenziante e soprattutto arricchente in maniera reciproca.
Non si dà perdita per una delle due parti – naturalmente all’interno
di un rapporto orientato al bene, per quanto sempre perfettibile.
Il docente non può perdere il suo “gusto” – “sapere” deriva dal latino sapio,
«avere sapore, gusto», perché il sapere è una questione eminentemente e unitamente
sensoriale e spirituale. Non può perderlo perché non si tratta di un oggetto
a lui esterno – come un quaderno, un libro, una cattedra.
Può (deve) condividerlo, può iniziare il suo prossimo – il discente, i discenti –
a questa mensa, ma non può restarne privo,
a meno di non volersi ritrovare mendico sotto il proprio tetto.
Esiste un secondo significato fondamentale – sempre per il nostro ragionamento –
del verbo “trasmettere”, ovvero «diffondere, comunicare per mezzo di vari media»,
come la radio o la televisione.
In questo senso, il ministero dell’istruzione può immaginare
il corpo docente come una filiera di antenne che, appunto, trasmettono
alla massa dei discenti quanto viene pianificato a livello centrale.
Oppure si possono immaginare i nostri docenti come ripetitori di contenuti
più o meno imposti – il “programma” –, ipotizzando che il sapere sia una quantità data di informazioni da mandare in onda.
Anche in questo caso, salta all’occhio la mancanza strutturale di questa metafora: qualunque docente sa per certo che il suo ruolo nel processo è molto più complicato.
Il problema, infatti, non è passare da un docente in bianco e nero a un professore a colori, poi ultra slim, 3D e chissà cos’altro.
Certamente ogni docente è differente dal collega,
ma il punto è che egli non si limita a rimandare un segnale,
bensì lo interpreta, anzi lo emette in proprio.
La fallacia originale di questa metafora è insita nel concetto di “comunicazione di massa”
(che peraltro andrebbe ridefinita come “emissione di massa”):
questa prevede un contenuto unificato e amplificato grazie a connessioni via cavo
o via etere, in un processo in cui l’unico vero attore è il “produttore”
che possiede la struttura, mentre gli altri soggetti coinvolti sono passivi, quasi reificati,
anche se lo spettacolo si dà in cinemascope e dolby surround a quindici vie
(e anche se, certo, la fruizione non è mai di per sé completamente passiva).
Non a caso la televisione è stata definita il medium «inchiodato»,
perché appunto il pubblico non può che rimanere crocifisso a patirne il messaggio.
Mentre ogni docente sa che lo studio di produzione, registrazione e diffusione
è la sua aula, che il suo pubblico è esigente,
capace di fare zapping con il solo pensiero.
“Trasmettere il sapere” è dunque un’espressione – descrizione o definizione che sia – fallace, radicalmente scardinata rispetto al suo obiettivo,
che è quello di cogliere il mistero del corpo mediante e del corpo messaggiato,
anzi massaggiato.
Certo, alcuni tentano di sopperire a queste aporie depotenziando la sfida:
si parla così di “trasmissione di conoscenze”, “competenze”, “informazioni” e altro ancora.
Ma sappiamo tutti che si tratta di scorciatoie incartate contro gli occhi degli studenti.
Quale alternativa proporre, allora?
Reputo che si debba pensare, dire, fare così: “comunicare il sapere”.
Perché la communicatio è un modo dell’essere, è condivisione e compagnia,
è fatica e impegno, dovere e piacere – gusto, ancora una volta –,
emissione e ricezione insieme, all’unisono. È servizio e dono.
È intreccio di corpi e anime.
In una parola, vita.
Ma su questo torneremo un’altra volta.