A memoria d’uomo, non si era mai visto un inverno così.
La neve era caduta abbondante, rendendo ancora più impenetrabili
le strette vie sugli Appennini. Osservato passo passo dalle guardie della contessa,
il corteo era avanzato a fatica; lo guidavano il re di Germania, Enrico,
con la moglie e il figliolo di due anni. Nel gelo pungente di quella fine di gennaio,
il castello di Canossa si ergeva come un sogno di pietra, bianco scoglio
in un mare di bianco, roccaforte imprendibile in mano a sua cugina.
Ella era la “grancontessa” Matilde, cugina del re e donna più potente d’Italia.
Dai suoi possedimenti sarebbe passato il destino d’Europa,
perché non c’era modo di sfidare il suo potere tra quei recessi della montagna,
dove lei aveva accolto il monaco che si faceva chiamare papa,
quella maledizione vomitata dall’Inferno contro il re di Germania.
Matilde aveva dato rifugio a Ildebrando, alias Gregorio VII, ed Enrico era giunto sin lì
per trattare, per comporre quel dissidio nefasto che lo aveva quasi precipitato dal trono. Ma le porte del castello erano rimaste chiuse.
Gregorio taceva.
Allora Enrico aveva chiamato Matilde e lei era andata da lui.
Lui vestito di seta, la corona dorata in testa, il potere ancora nelle mani.
Lei piccola e minuta, un velo bianco a coprire i capelli.
E lui si era inginocchiato – il re si piegava, davanti a un conte, davanti a una donna… –
e l’aveva supplicata: «Valente cugina, fa’ che egli mi benedica, va!».
E Matilde era andata, aveva intercesso per il re, ma la porta restava chiusa.
Gregorio parlava un silenzio pauroso.
Cosa avrebbe fatto ora Enrico?
Cosa può fare uno scomunicato davanti a un papa?
È l’alba del 25 gennaio, anno del Signore 1077.
Nel silenzio glaciale davanti alla rocca di Canossa, si intuisce un’alterazione di suono.
È appena percettibile sotto la pesante cappa dell’inverno, ma la sua vibrazione
può far crollare il mondo. È un singulto leggero, un respiro pesante e affannato.
Una guardia si affaccia sugli spalti: quale razza di animale emette un simile verso?
E lì, tra il morso del gelo e la neve schiacciata, sta un uomo vestito di misera lana.
Il capo scoperto.
I piedi nudi.
Fredde lacrime gli rigano il volto mentre la guardia capisce, e sbalordisce: Enrico IV,
re di Germania e d’Italia, futuro imperatore d’Occidente, se ne sta come un penitente davanti alla porta di Matilde. Davanti alla porta del papa.
La voce corre di spalto in spalto, invade la corte interna e le stanze, giunge alle orecchie del papa: Enrico chiede perdono!
Ma Gregorio tace.
Ed è sera ed è mattina.
Il secondo giorno Enrico è ancora lì, penitente, piangente.
Freddo.
Gregorio resta in silenzio, mentre molti, intorno a lui, cominciano a mormorare.
Ed è sera ed è mattina.
Il terzo giorno Enrico è sempre lì.
Piange e implora.
Gregorio tace ma tutti, intorno a lui, vedono che non è cosa buona,
che egli non mostra più la severità della sede apostolica, ma la crudeltà di un tiranno.
Non deve forse il papa perdonare chi si pente?
E Gregorio fa aprire la porta. Enrico si trascina alla sua presenza, si sdraia ai suoi piedi, apre le braccia in forma di croce.
Gregorio si piega, lo solleva, lo abbraccia.
Lacrime calde bagnano i volti di tutti: la scomunica è tolta.
Continua la lettura…
Le due spade.
La riforma gregoriana
e la lotta per le investiture
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